Perché (dire o scrivere) ministra non è una parolaccia

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Manifesto per una lingua che sia più rispettosa delle donne. Guida pratica a chi si fa venire il mal di pancia quando deve declinare i ruoli al femminile.

Adriana Terzo

Dire o scrivere ministra non è come dire o scrivere una brutta parola, anzi. Secondo diverse guide per l’uso della lingua italiana, ministra – riferito ad una donna che ricopre quel ruolo – è il solo modo corretto, gli altri sono tutti sbagliati. Dobbiamo dedurne che c’è una massa enorme di persone che non sa parlare né scrivere ogniqualvolta deve declinare una carica – spesso importante – al femminile? Purtroppo la risposta è sì. Ora, possiamo provare a capirne o spiegarne i motivi sociali, politici, linguistici e psicologici e senz’altro ci proveremo, ma la sostanza non cambia. Il linguista Aldo Gabrielli, uno dei più autorevoli studiosi della lingua italiana del XX secolo, già nel 1976 nel suo Si dice o non si dice, spiegava: “La grammatica italiana insegna una cosa elementare: che per gli uomini esiste un maschile e per le donne un femminile, non si può fare eccezione per un sindaco o per un ambasciatore”. Raccontando di come, un tempo, tutti i pittori erano maschi, almeno quelli celebri. Ma ecco che tra il Seicento e il Settecento spuntano due astri pittorici femminili, Artemisia Gentileschi e, mezzo secolo più tardi, Rosalba Carriera. Fino ad allora si era usata la sola parola pittore, con le varianti più antiche dipintore e pintore, ma qualcuno voleva classificare anche queste donne artiste, e sorse il problema linguistico: come definirle? Il latino classico offriva solo pictor, pictoris maschile. Esisteva però un aggettivo femminile, pictrix, pictricis, creato nel basso latino: si diceva, per esempio, natura pictrix, natura pittrice. A questo aggettivo si rifecero i letterati dell’epoca sostantivandolo, e dissero: la pittrice Artemisia Gentileschi, la pittrice Rosalba Carriera. Da allora, la parola pittrice diventò comune nell’uso e nessuno oggi penserebbe di poter dire che Gentileschi e Carriera furono due celebri pittori!

L’esempio torna molto utile perché è probabile che la difficoltà che hanno colleghe e colleghi giornalisti, ma anche scrittrici e scrittori, speaker, anchorman e gente comune, ad usareministra o avvocata sia legato non soltanto ad un problema di natura squisitamente grammaticale, ma anche socio-politico-psicologica. Vediamo. Fino a un secolo fa o poco più, le donne non esercitavano praticamente nessuna professione pubblica, ed erano rare coloro le quali esercitavano quelle private. Questo ha fatto sì che i nomi professionali fossero tutti al maschile. Ma oggi, chi discuterebbe sull’appellativo di maestra da dare ad un’insegnante di scuola elementare? Quello che è stato fatto, tanti anni fa, è di una elementarità abbacinante: si è preso il nome maschile, maestro, e si è declinato al femminile, maestra.

Ma ecco che per alcune cariche, nelle redazioni dei giornali ma anche altrove, si scatena il mal di pancia quando un bel giorno eleggono al Senato o al Governo una donna. E adesso che si fa? Com’è il femminile di deputato? E si può dire il senatore Anna Finocchiaro? No che non si può dire, ricorda ancora Gabrielli: i nomi che finiscono in -tore fanno normalmente in -trice. Esempi: imperatore, imperatrice, illustratore, illustratrice. E ancora, da una terminazione maschile in -o, nasce il femminile in -a, dunque deputato, deputata. Tantopiù che qui si tratta di un participio passato del verbo deputare: cioè persona deputata a rappresentare in Parlamento gli elettori. Per avvocato, la stessa cosa, altro participio passato, questo di origine latina: advocatus, da advocare, chiamare presso, cioè persona chiamata presso chi deve essere assistito in un giudizio. Maschile in -o, femminile in -a: avvocata e guai ad usare avvocatessa. Per non parlare dei ministri in gonnella, l’orgasmo linguistico tocca vette insormontabili: ma se il femminile di sinistro è sinistra, perché il femminile di ministro non può essere ministra?

Nel 1994 il dizionario Zingarelli, con un ribaltamento storico, ha inserito la declinazione al femminile di 800 parole maschili, nonostante il fastidio di diversi accademici della Crusca e il leggero ribrezzo di non poche studiose e studiosi. Sono nate così l’avvocata e l’ingegnera, la ministra e l’assessora, la notaia e la chirurga, la giudice e la carpentiera. E a chi sostiene che certi femminili suonano male, vale la pena rispondere che non si tratta solo di fonetica, perché se suonano bene parole come parrucchiera, coniglietta o monaca, non si capisce perché non dovrebbero suonare bene, allo stesso modo, cariche come direttrice, assessora, sindaca o questora. Vai a capire.

Purtroppo, noi lo capiamo benissimo. Nel senso che ciò che veramente crea difficoltà, forse, è il fatto di riconoscere una donna in un certo ruolo. Operaia va bene, sindaca no. Siccome una donna al vertice è sentita come un’anomalia – in questo caso, una donna investita della massima carica cittadina – deve essere chiamata con quell’anomalia, e cioè come se fosse un uomo. Perché, badate, può andar bene l’elezione di una sindaca, ma non va bene culturalmente che quella donna sieda là, nello scranno più alto. Ecco perché continueremo a chiamarla sindaco: perché dobbiamo sottolineare e perpetuare che si tratta di un’anomalia, altrimenti, se la chiamassimo con il nome che le spetta, sarebbe sindaca. Una donna sindaca? Ma come? No, no, non va bene, perché lo stereotipo vuole la donna vicina al focolare a preparare la cena dopo aver messo a letto le bambine. Altroché sindaca!

Il guaio è che, così scrivendo, assistiamo ad un fiorire di titoli a sette colonne e articoli su eminenti quotidiani davvero suggestivi per non dire ridicoli: “Il ministro indossava un abitino bianco classico con un lungo velo a strascico che gli lasciava comunque le spalle scoperte, e portava un bouquet di roselline bianche. (Vanity Fair, 27 giugno 2011, a commento delle nozze dell’ex ministra, Mara Carfagna). “Il neo ministro della Giustizia ha scelto un abbinamento giacca blu e pantalone nero con camicia bianca e collana di perle. Tailleur nero e perle anche per il ministro dell’Interno che tuttavia indossa una gonna longuette. Una giacca bianca con pantalone nero è invece la scelta del ministro del Welfare, che indossa al collo un collier d’oro. (Tmnews, giuramento al Quirinale delle tre ministre del Governo Monti, 17 novembre 2011). A parte che non si capisce ancora perché, ogni volta che si parla di donne, bisogna descriverne le mutandine o il tipo di abito, ci si chiede: ma non è assurdo tutto questo? Porre l’accento sulle scarpette rosse che indossano invece che su ciò che le donne sono e pensano. E ancora: “Il ministro della Giustizia è uno dei più noti avvocati”. E stiamo parlando di Paola Severino. Ma che tipo di informazioni sono queste e quale contenuto offrono?

Ora, il punto politico della questione è che il linguaggio riferito ad un solo sesso, quello maschile, può rivelarsi – e secondo noi, si rivela – un potente strumento di oppressione culturale, come afferma Adriana Perrotta Rabissi in Parlare e scrivere senza cancellare uno dei due sessi. Perché:

discrimina, esclude e nasconde il genere femminile – le donne – in quanto tali

sminuisce l’espressione del femminile e la subordina al maschile

mortifica, così facendo, le aspirazioni delle donne, ne ridimensiona la componente – maggioritaria – nella società e ne svaluta l’importanza deprezzandone il peso politico

Pensate un momento alla parola segretaria: declinata da subito al femminile, dagli anni Sessanta in poi, è stata, purtroppo, spesso svilita e vilipesa nel ruolo. Bene, come sappiamo, esiste anche il segretario, ma non in quella accezione lì. E infatti ecco che il vocabolo si nobilita e diventa Franco Siddi, segretario della Fnsi. E deve essere davvero nobile se anche Susanna Camusso ci tiene a farsi chiamare segretario della Cgil. Ma perché se declinata al maschile, la parola immediatamente assume un connotato nobile, se al femminile no? E questo pone un’altra, delicatissima questione. Noi, noi donne, giornaliste, scrittrici, sceneggiatrici, operatrici della comunicazione. Possibile che dobbiamo esser contente di chiamarci e farci chiamare come se fossimo uomini? Quando capiremo, parafrasando Wittgenstein, che ciò che non si dice non esiste e dunque che, se non ci vedono quando parliamo, discutiamo, scriviamo, non esisteremo mai? Pensateci: un termine coniugato al maschile spinge automaticamente la nostra mente a pensare a un uomo. Ancora: tutti dicevano “Il direttore dell’Unità, Concita De Gregorio”, ma poi ecco “La direttrice dell’asilo, Cinzia Lojacono”. Ma perché un direttore di giornale è importante e dunque maschile, mentre dirigere un asilo è confinato nel ghetto di una roba da donne, anzi da donnette?

Per fortuna che ogni tanto qualcuna si sveglia e allora ecco Angela Merkel che si fa chiamare cancelliera, Elsa Fornero che chiede di non mettere l’articolo la davanti al suo cognome (mentre su altri versanti, lo sappiamo,  ha fatto sfracelli…), donne come le francesi che vogliono nuove regole nella loro grammatica perché, nei plurali, il femminile risulta penalizzato. “Se neanche nella lingua esiste la parità di genere – si chiede giustamente Clara Domingues, docente di Letteratura francese e presidente di un’associazione femminista – come sperare che la condizione delle donne faccia progressi in famiglia o negli uffici?”.

Tra l’altro, questo tipo di linguaggio così diffuso, definito giustamente sessista, si somma alle varie altre discriminazioni che noi donne già subiamo nei media, e non solo. Per esempio, siamo molte di meno rispetto ai colleghi; guadagnamo salari più bassi a parità di mansioni; è rarissimo che ricopriamo ruoli dirigenziali. In più, siamo soggette ad un certo tipo di informazione stereotipato per cui da sempre si parla di noi sui media – e non solo – a compartimenti stagni e con articoli da macelleria che attraversano l’intero arco delle storture di immagine. Ma noi non siamo così, nella vita reale. Nella stragrande maggioranza siamo persone normali che lavorano, studiano, si impegnano, pagano le tasse. E che vogliono essere rappresentate così come sono, senza stereotipi e senza pregiudizi.

Allora, se è vero che il linguaggio trasmette messaggi che spesso rinforzano il ruolo stereotipato delle donne, noi vorremmo evitare di farlo. E vorremmo evitare di usare sempre e comunque il maschile perché questo occulta tutto il lavoro, l’attività, l’impegno e l’influenza culturale e sociale che le donne hanno esercitato ed esercitano, oggi come ieri.

Femminilizzare il linguaggio, dunque, è importante per tutte le ragioni descritte sopra. Ma anche perché questo serve a mettere la donna al posto giusto: né santa né velina, né solo fornaia né solo avvocata, una persona che ha tante sfaccettature. E questa donna qui noi la vogliamo vedere rappresentata, vogliamo che sia visibile, riconoscibile e trasmettibile alle ragazze e alle bambine che ci guardano. In famiglia, sui luoghi di lavoro, in tv. Non raccontarla mai, questa donna, significa non farla esistere. Cecilia Robustelli, docente di Linguistica, sostiene che “lo sviluppo dell’identità di genere ha come fine il riconoscimento della piena dignità, parità e importanza del genere femminile e di quello maschile: per questo, oggi, si pone anche come requisito indispensabile per la formazione personale, culturale e sociale delle nuove generazioni”. E chi meglio di noi, giornaliste e giornalisti, può rendere giustizia a questa riflessione? Noi che per mestiere usiamo e pesiamo le parole, le capolvogiamo, le riduciamo e le adattiamo, le strizziamo e le rilanciamo, e allo stesso tempo stringiamo un patto forte con il nostro pubblico. Per noi, questo, dovrebbe diventare un imperativo etico.

E badate, non si tratta di un problema marginale come pensano molte, anzi. L’ufficio di presidenza della Ue, a maggio del 2008, ha accolto una prima serie di linee guida del Parlamento per un linguaggio neutro dal punto di vista del genere, specifiche per ogni lingua. Da tempo in Francia, in Austria, in Svizzera si usa normalmente il linguaggio di genere anche negli atti ufficiali. Per noi operatrici e operatori della comunicazione, usare un linguaggio corretto e rispettoso del genere dovrebbe diventare lo strumento d’eccellenza per far in modo che non si compia l’ennesima ingiustizia/violenza nei confronti delle donne. In altre parole, sarebbe opportuno non perdere occasione per stigmatizzare tutto ciò che è sbagliato, anche solo formalmente, perché è proprio dal profondo di convinzioni personali – sbagliate – che, a volte, trae alimento una specie di autogiustificazione verso comportamenti violenti che tanti uomini hanno nei confronti delle donne. Ma soprattutto perché, continuare ad usare un linguaggio sessista nel lungo periodo non fa bene a nessuno e non crea quelle basi fondamentali che devono esistere in una società sana perché ci sia un ricambio politico, sociale, culturale e di rappresentanza. Che deve spettare, anche, alle donne.

Una fatica in più? Sì, e grande anche, perché non c’è ancora la consuetudine all’uso di una lingua attenta al genere e questo comporta un’attenzione costante e vigile per cercare di conciliare il linguaggio non sessista con l’esigenza di non appesantire discorsi, articoli, interventi e quant’altro. Ma, a questo punto delle cose, una fatica necessaria.

RACCOMANDAZIONI PER UN USO NON SESSISTA DELL’TALIANO

Accanto al consiglio di ricondurre, il più possibile, negli articoli che scriviamo, entrambe le categorie femminile e maschile (e quindi, immigrate e immigrati, lavoratori e lavoratrici, clandestine e clandestini); di rivolgerci alle nostre amiche e ai nostri amici – anche nelle mail di lavoro – con carissime e carissimi, care colleghe e cari colleghi, di includere insomma quanto più possibile il genere femminile sia quando si scrive che quando si parla; accanto a queste, ecco di seguito una sintesi delle ormai famose Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini, di cui le Raccomandazioni costituiscono il terzo capitolo, elaborato nel 1987 per la Presidenza del Consiglio delle ministre e dei ministri e per la Commissione delle Pari Opportunità.

1.Evitare l’articolo con i cognomi femminili (Fornero, Finocchiaro e Camusso)

2. Accordare il genere degli aggettivi con quello dei nomi che sono in maggioranza per cui Silvia, Luca e Chiara sono simpatiche, o in caso di parità con l’ultimo nome: Silvia, Luca, Chiara e Giovanni sono simpatici;

3. Evitare il maschile cosiddetto neutro (la nostra lingua non ha il neutro, ha un maschile e un femminile), ad esempio “L’Umanità” al posto di “L’uomo”, “I diritti della persona” piuttosto che “I diritti dell’uomo”.

4. Usare il femminile dei titoli professionali in riferimento alle donne

Sul quarto punto, le Raccomandazioni consigliavano di creare la forma femminile, laddove non fosse già disponibile, con la sola avvertenza di evitare le forme in -essa, sentita come riduttiva, e preporre ai nomi in -e l’articolo femminile. Quindi la vigile, la presidente. Le varie modalità di modulazione al femminile venivano così analizzate partendo dalla forma maschile già esistente:

- i termini -o, – aio/-ario, -iere mutano in -a, – aia/-aria, -iera. Esempio: architetta, avvocata, chirurga, ministra, primaria, notaia, portiera.
- i termini in -sore mutano in -sora. Esempio: assessora, difensora, evasora, oppressora
- i termini in -essa corrispondenti a maschili in -sore devono essere sostituiti da nuove forme in -sora. Esempio: dottora, professora.
- i termini in -tore mutano in -trice. Esempio: ambasciatrice, direttrice, ispettrice, redattrice, senatrice, accompagnatrice (eccezione questora).

Nei seguenti casi si ha solo l’anteposizione dell’articolo femminile la:
- termini in -e o in -a. Esempio: la generale, la maggiore, la parlamentare, la preside, l’ufficiale, la vigile, l’interprete, la presidente, la poeta, la profeta. – forme italianizzate di participi presenti latini. Esempio: l’agente, l’inserviente, la cantante, la comandante, la tenente. – composti con capo-. Esempio: la capofamiglia, la caposervizio, la capo ufficio stampa.

 

File del 23 settembre 2013 dal sito web http://scioperodonne.wordpress.com/2013/09/19/perche-dire-o-scrivere-ministra-non-e-una-parolaccia/