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Lettera al Presidente sul controllo dell'orario di lavoro

Al Presidente dell’INFN, prof. Fernando Ferroni

e, per conoscenza,

al Direttore Generale dell’INFN, dott. Bruno Quarta

ai membri del Consiglio Direttivo dell’INFN

ai rappresentanti delle OO.SS. rappresentative

 

 

Caro Presidente,

 

negli ultimi mesi ci sono stati diversi eventi che ci hanno portato a riconsiderare seriamente la prassi in uso nel nostro Ente per il controllo dell’orario di lavoro dei ricercatori, il cosiddetto “cartellino”. Nell’ordine:

·         La diffusione della sentenza 435/2015 della Corte d’Appello di Bologna (pubblicata il 29-7-2015) che ha confermato una sentenza di primo grado favorevole a un ricercatore del CNR di Bologna che non aveva utilizzato i sistemi automatici di controllo dell’orario di lavoro introdotti nel suo Istituto a valle di un accordo sindacale locale;

·         L’emanazione del DL 116 del 20-6-2016 sul controllo della presenza in servizio del personale pubblico;

·          La pubblicazione dello schema di decreto delegato di semplificazione delle attività degli EPR, che non include alcun tipo di riconoscimento della specificità del lavoro di ricerca e dei suoi tempi.

A ciò si aggiunga l’ormai certo inserimento degli Enti Pubblici di Ricerca nel comparto di contrattazione della scuola, nel quale i margini per tutelare la specificità del nostro lavoro nel prossimo contratto sono tutti da verificare.

Abbiamo dunque cercato di capire prima di tutto in base a quali norme i ricercatori e tecnologi dell’INFN timbrano il cartellino. In calce a questa lettera ti riportiamo con maggiore dettaglio i riferimenti normativi che abbiamo considerato, e che possiamo sintetizzare così:

1.       L’art.58 del CCNL 1998-2001 non impone per ricercatori e tecnologi l’obbligo di controllo dell’orario di lavoro con sistemi di rilevamento automatici.  Non si tratta di una omissione casuale, in quanto nello stesso contratto tale obbligo è invece esplicitamente previsto all’art.48 per il personale dei livelli IV-VIII.

2.       L’art. 39 del precedente DPR 171/1991 che imponeva di documentare “l’osservanza dell’orario di lavoro” di tutto il personale “attraverso sistemi automatici di rilevazione”, è stato disapplicato dall’art.80 del CCNL 1994-1998.

3.       In assenza dunque di una esplicita norma contrattuale, resta la sola norma generale stabilita dal comma 3 dell’art. 22 della legge n. 724 del 23 dicembre 1994. Tuttavia non solo numerose sentenze del TAR, ma anche ben due sentenze della Cassazione sezione lavoro (come riportato in allegato) hanno sancito il principio che “per i dipendenti pubblici l’obbligo di adempiere alle formalità prescritte per il controllo dell’orario di lavoro deve discendere da apposita fonte normativa legale o contrattuale”. La legge 724/1994 è una fonte normativa “generale”, mentre la fonte “apposita” è l’art.58 del CCNL che, come già verificato, non prevede l’obbligo del cartellino.

4.       I contratti integrativi locali non possono fissare norme in contrasto con la contrattazione nazionale, e quindi non possono introdurre sistemi di rilevamento automatico dell’orario per ricercatori e tecnologi, come affermato dalla citata sentenza della Corte d’Appello di Bologna avverso il CNR, sulla base di specifici pronunciamenti della Cassazione.

5.       Nell’INFN l’introduzione del controllo automatico dell’orario per ricercatori e tecnologi è avvenuta a partire dal 1 luglio 1998 come diretta applicazione dell’art.35 del CCNL 1994-98, senza alcun altro atto formale dell’Ente (disposizione o delibera) e senza la discussione di alcun accordo integrativo, come risulta dalla circolare del Presidente prot. 1418/16.0.1/P del 20-4-1998. Il testo della circolare fa esplicito riferimento all’art.22 della legge 724/1994, che all’epoca come anche ora era effettivamente l’unica fonte normativa disponibile. Tuttavia (come già spiegato) una prima sentenza della Cassazione del 1994 aveva dichiarato insufficiente una norma generale per obbligare i dipendenti pubblici alla rilevazione automatica dell’orario di lavoro, ribadita poi nel 2006 da una ulteriore sentenza della Corte.

A seguito di questa analisi concludiamo che non sussiste alcun obbligo, né contrattuale né di legge, di controllare l’orario di lavoro di ricercatori e tecnologi col cartellino. Pertanto l’imposizione di tale obbligo risulta illegittima, a contratto vigente.

Ciò nonostante i ricercatori e tecnologi dell’INFN timbrano ormai il cartellino da 18 anni con una prassi consolidata, sulla quale abbiamo ritenuto doveroso sondare l’effettiva percezione dei colleghi che rappresentiamo, i ricercatori. Possiamo quindi affermare che c’è un diffuso consenso sul fatto che questa prassi è lontanissima dal modo di lavorare di un ricercatore e del tutto inadeguata a misurare il tempo dedicato al lavoro di ricerca, come del resto fu rivendicato da molti al momento della sua introduzione, anche con l’autorevole supporto di lettere inviate all’Ente da illustri scienziati stranieri (Lederman, Weinberg, Panofsky, Drell, Glashow):

- una non trascurabile frazione di colleghi ritiene in ogni caso che il cartellino sia una grave violazione della propria autonomia, sia nella forma che nella sostanza, oltre che una fonte di continui problemi nella rendicontazione dei progetti.

- la maggioranza invece, pur ritenendo che le attuali modalità di utilizzo del cartellino non costituiscano un serio problema nello svolgimento della propria attività, esprime preoccupazione per l’evoluzione che il controllo dell’orario di lavoro potrebbe avere nel nuovo quadro normativo e contrattuale, con conseguenze negative sul proprio lavoro di ricerca.

Riteniamo che l’INFN non possa trascurare quanto esposto finora. Con questa lettera ti chiediamo di attivarti sia all’interno che all’esterno dell’Ente con tutte le azioni ed in tutte le forme che possano portare al superamento del rilevamento automatico dell’orario di lavoro. All’interno dell’Ente a partire da un confronto col tavolo sindacale che permetta di individuare le più opportune prassi alternative al “cartellino”, all’esterno invece chiedendo norme di garanzia dell’autonomia del tempo di lavoro della ricerca sia a livello di legge che di contratto.

                                                                               Con i saluti più cordiali,                                     

Antonio Passeri

Rappresentante nazionale

 

 

Lorenzo Bonechi

Firenze

Paolo Branchini

Roma Tre

Massimo Casarsa

Trieste

Silvio Cherubini

LNS

Gabriele Chiodini

Lecce

Denis Comelli

Ferrara

Luigi Coraggio

Napoli

Biagio Di Micco

Roma Tre

Alessia Di Pietro

LNS

Giuseppe Di Sciascio

Roma Tor Vergata

Stefano Dusini

Padova

Fabrizio Ferro

Genova

Alessandra Filippi

Torino

Davide Fioravanti

Bologna

Fabio Gargano

Bari

Simone Gennai

Milano Bicocca

Stefano Lacaprara

Padova

Marcello Lissia

Cagliari

Francesco Longo

Trieste

Marco Mirazita

LNF

Cristiano Palomba

Roma

Mauro Piccini

Perugia

Stefano Pirro

LNGS

Paola Puppo

Roma

Emilio Radicioni

Bari

Nunzio Randazzo

Catania

Alessia Satta

Roma Tor Vergata

Carla Sbarra

Bologna

Javier Valiente

LNL

Graziano Venanzoni

LNF

Sandra Zavatarelli

Genova

 

Riferimenti normativi

Il vigente art. 58 del CCNL 1998-2001 del 21 febbraio 2002 (che sostituisce il previgente art. 35 del CCNL 1994-1998 di Area dirigenziale dei soli R&T) non prevede per i Ricercatori e Tecnologi del Comparto Ricerca l’obbligo dell’accertamento dell’orario di lavoro mediante sistemi di controllo, che è invece esplicitamente confermato per il personale dei livelli IV-VIII dal vigente art. 48, comma 4, dello stesso CCNL 1998-2001. Anzi, il CCNL 1994-1998, all’art. 80 Disapplicazioni, ha esplicitamente dichiarato incompatibile con la nuova normativa contrattuale l’art. 39 del precedente DPR 171/1991 che imponeva di documentare “l’osservanza dell’orario di lavoro” di tutto il personale “attraverso sistemi automatici di rilevazione”. Solo “per gli Enti di ricerca e di sperimentazione la cui attività si lega ad eventi eccezionali ovvero a scadenze istituzionali, la presenza in servizio di ricercatori e tecnologi può essere disciplinata, previa concertazione, in funzione degli incarichi loro conferiti e di specifiche esigenze organizzative connesse ai processi produttivi”, come stabilito dall’art. 21 del CCNL 2002-2005 che integra l’art. 58 del precedente CCNL. Per gli Enti nel loro complesso, invece, solo un’apposita Commissione paritetica da costituire ha il compito, ai sensi del comma 7 del succitato art. 58, “di esaminare la possibilità di introduzione in via sperimentale di ulteriori modalità di gestione dell’orario di lavoro” dei Ricercatori e Tecnologi.

Sia la giurisprudenza di legittimità che quella amministrativa “hanno stabilito il principio che per i dipendenti pubblici l’obbligo di adempiere alle formalità prescritte per il controllo dell’orario di lavoro deve discendere da apposita fonte normativa legale o contrattuale” (Cassazione, sez. lavoro, sentenze n. 3298 del 08/04/1994 e n. 11025 del 12/05/2006, nonché numerose sentenze del TAR, non ultima la sentenza n. 250 del 02/02/1995 del TAR del Lazio) e che non è sufficiente una norma di tipo generale, quale l’art. 22 della legge n. 724 del 23 dicembre 1994, per introdurre tale obbligo.

L’art.58 del CCNL 1998-2001, come su esposto, è precisamente “l’apposita fonte normativa” relativa ai Ricercatori e Tecnologi degli EPR in materia di orario di lavoro, ma come si è visto non prescrive affatto l’obbligo di accertarlo mediante sistemi di controllo, né sussistono altre fonti di natura diversa.

Di conseguenza, dato che “la giurisprudenza amministrativa è univoca nell’affermare l’esigenza di una fonte normativa specifica per la facoltà di sottoporre il personale dipendente al controllo delle presenze mediante orologi marcatempo o altri sistemi di registrazione” (Cassazione Civile, sez. lavoro, 12/05/2006, n. 11025), il datore di lavoro non può sottoporre i Ricercatori e Tecnologi al controllo delle presenze attraverso sistemi di rilevamento.

Per quanto riguarda gli accordi integrativi locali su questa materia, la Cassazione ha stabilito che “la contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, restando escluso che le pubbliche amministrazioni possano assumere obbligazioni in contrasto con i vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali” (Cassazione Civile n. 9146 del 2009 e n. 14530 del 2014), “con la conseguenza che le clausole difformi [ai CCNL] sono nulle e non possono essere applicate”. Pertanto, ai contratti collettivi integrativi è preclusa la possibilità introdurre sistemi di rilevamento dell’orario di lavoro dei Ricercatori e Tecnologi. Solo la concertazione, e solo “per gli Enti […] la cui attività si lega ad eventi eccezionali ovvero a scadenze istituzionali”, può introdurre forme di disciplina della presenza in servizio dei Ricercatori e Tecnologi, come previsto dall’art. 21 del CCNL 2002-2005.

Recentemente sono stati di tale avviso prima il Tribunale e poi la Corte d’Appello di Bologna nell’esaminare il caso di un ricercatore del CNR di Bologna che non aveva utilizzato i sistemi automatici di controllo dell’orario di lavoro introdotti nel suo Istituto a valle di un accordo sindacale locale del 2009.  In particolare, il Tribunale di Bologna, con la sentenza 1866/2013 emessa il 7 febbraio 2014, ha affermato che “l’accordo sindacale del 21 gennaio 2009 [...] deve essere considerato nullo ai sensi dell’art. 40 del d.legs. n. 165 del 2001, nella parte in cui non ha differenziato, nel disciplinare le modalità di introduzione e di gestione di un sistema con lettore magnetico per l’accesso e la rilevazione delle presenze dei dipendenti [...], la posizione dei ricercatori e dei tecnologi da quella del restante personale”, in quanto “per i ricercatori e tecnologi [...] non è stata prevista la possibilità di accertare l’osservanza dell’orario di lavoro mediante strumenti automatici di rilevazione delle presenze, salve le determinazioni – a quanto risulta mai assunte – di una costituenda Commissione paritetica”. Né la contrattazione integrativa di ente, di cui all’art. 28 del CCNL del 7 aprile 2006, “ha ricevuto la facoltà di disciplinare, in deroga o a completamento delle disposizioni del contratto collettivo nazionale, la materia dell’orario di lavoro per i ricercatori e tecnologi”, per i quali, ai sensi dell’art. 21 del medesimo CCNL del 7 aprile 2006 “eventuali modifiche possono essere disposte, previa concertazione, solo per gli Enti di ricerca e di sperimentazione la cui attività si lega ad eventi eccezionali ovvero a scadenze istituzionali [...] per altro nel rispetto degli incarichi conferiti ai ricercatori e tecnologi e di specifiche esigenze organizzative connesse ai processi di produzione”.

Di analogo tenore è stata la sentenza n.435/2015 del 29 luglio 2015 della Corte d’Appello di Bologna che, nel valutare il ricorso dell’Istituto del CNR contro la precedente sentenza di primo grado, ha affermato che “deve ritenersi non solo che i ricercatori e tecnologi abbiano l’autonoma determinazione del proprio tempo di lavoro ma che sia, correlativamente, esclusa l’introduzione di forme di disciplina dell’orario di lavoro e di controllo sull’osservanza dello stesso, salve le eventuali determinazioni di una costituenda commissione paritetica” prevista a livello di intero comparto Ricerca. Di conseguenza, afferma la Corte, “il sistema di rilevazione a badge previsto […] per verificare i tempi di presenza in sede è palesemente in contrasto con la disciplina contrattuale”.

Da notare che tra i motivi d’appello addotti dal CNR c’era anche l’assunzione che il sistema di rilevazione “a badge” avesse lo scopo di “verificare i tempi di presenza in sede anche al fine di consentire una regolare applicazione delle norme in materia di tutela del lavoro”. Anche questo motivo d’appello è stato però respinto dalla Corte. D’altronde, sono innumerevoli le amministrazioni pubbliche (scuola, università, tribunali, ad esempio) nelle quali solo alcuni dei dipendenti sono soggetti a sistemi automatici di rilevazione dell’orario di lavoro, senza che ciò violi la normativa in materia di tutela del lavoro e di sicurezza.

 

Da sottolineare anche che la Corte d’Appello, ritenendo che il ricorso presentato dall’Istituto del CNR vertesse su questioni che il precedente giudizio “aveva permesso di affrontare e sviscerare” nella loro totalità e avendo respinto integralmente l’appello, ha condannato l’Istituto del CNR al pagamento delle spese di lite del primo e del secondo grado, ammontanti complessivamente ad oltre 20.000 euro.