Atlas

Il contributo italiano al progetto NSW

18 Jan , 2022  

Intervista a Cesare Bini, docente di Fisica Sperimentale della Sapienza Università di Roma, coordinatore della collaborazione New Small Wheel (NSW) nell’ambito di ATLAS-Italia dal 2016.

Quando è nato il progetto delle NSW?

Nel gennaio del 2012, ATLAS organizzò un workshop a Les Brassus, una località sui monti Jura nei pressi di Ginevra, per una prima discussione e un primo confronto tra le varie tecnologie che potevano essere utilizzate. In realtà, di questo upgrade si parlava già da diversi anni. Numerosi gruppi avevano intrapreso attività di ricerca e sviluppo (R&D) volte ad individuare le migliori tecnologie per un progetto che prevedeva prestazioni spinte in un ambiente caratterizzato da flussi molto elevati di particelle.

A quel workshop erano rappresentati quasi tutti i gruppi italiani impegnati nello spettrometro a muoni, alcuni dei quali erano già attivi nei lavori di R&D per almeno due delle tecnologie che in quel contesto venivano proposte, le Micromegas e gli RPC di nuova concezione.

Come ha contribuito la collaborazione italiana?

La collaborazione NSW-Italia si è costituita successivamente, quando la scelta delle due tecnologie per i rivelatori (Micromegas e sTGC) e le fasi iniziali del progetto (che hanno portato alla scrittura del Technical Design Report e del Memorandum of Understanding), hanno definito le caratteristiche tecniche del progetto e la suddivisione del lavoro tra gli istituti di ricerca partecipanti.

La parte più consistente dell’attività che ha impegnato tutti i gruppi INFN coinvolti, è stata la costruzione di 32 camere Micromegas (un quarto del totale delle camere necessarie per le due Wheel). Accanto a questo, la collaborazione italiana si è assunta anche l’impegno di progettare e realizzare un tipo di schede di “trigger”, e di curare la realizzazione di alcuni aspetti dei cosiddetti “servizi” del rivelatore, in particolare il sistema di alimentazione a bassa tensione, Low Voltage.

Nel corso degli anni alcuni di noi hanno avuto anche incarichi nella struttura di management del progetto a vari livelli. E soprattutto dopo la fine delle attività di costruzione in Italia, il contributo dato dai nostri gruppi alle attività di integrazione e commissioning al CERN è stato pure di estrema importanza.

Quali istituti italiani hanno partecipato alla costruzione?

Dal lato INFN hanno fatto parte dell’impresa sette gruppi: Cosenza, Frascati, Lecce, Napoli, Pavia, Roma1 e Roma3.

Per la costruzione delle camere Micromegas abbiamo messo in piedi una struttura di attività parallele svolte in laboratori diversi, con l’idea di ottimizzare i tempi di realizzazione sfruttando anche le infrastrutture già presenti nelle diverse sezioni INFN. Dato che ognuna delle 32 camere è costituita da 5 pannelli (di due tipi diversi, “drift” e “read-out”) e da 4 “mesh”, la catena di produzione è stata la seguente: tutti i pannelli di “read-out” sono stati costruiti a Pavia; i pannelli di “drift” sono stati costruiti a Roma1 e finalizzati a Cosenza; le “mesh” sono state preparate a Roma3. Infine, i singoli componenti venivano inviati a Frascati, dove le camere venivano assemblate, testate e validate.

Un’organizzazione di questo tipo ha richiesto evidentemente anche una logistica molto complessa, con una rete di trasporti e di forniture che dovevano anche essere ben temporizzati. Sono stati anni di grande impegno, con riunioni settimanali in cui si faceva il punto sulla situazione della produzione in tutti i siti e si discutevano i problemi riscontrati. Gli anni tra il 2013 e il 2017 hanno visto la definizione del progetto e la realizzazione dei primi prototipi. Il lavoro di costruzione delle camere di produzione è iniziato tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 e si è concluso nell’autunno del 2020 quando l’ultima camera è stata spedita al CERN. È stato un lavoro che ha coinvolto una cinquantina di persone tra fisici e tecnici. Tutti i gruppi hanno contribuito in modo molto rilevante, anche quelli che non hanno avuto un’attività costruttiva in sede.

Quale è stato il momento più difficile?

Nel periodo compreso tra l’estate del 2016 e i primi mesi del 2018, il progetto di realizzazione delle Micromegas ha attraversato un momento di forte crisi. Infatti, dopo la realizzazione del primo assemblaggio in Italia, del cosiddetto “modulo 0”, (estate del 2016) e dopo la realizzazione dei rispettivi “moduli 0” degli altri siti costruttivi all’estero (primi mesi del 2017), ci siamo trovati di fronte ad un problema molto serio, quello dell’instabilità in alta tensione (HV) delle camere. Il problema, che era stato già evidenziato per la verità su alcuni prototipi di dimensioni limitate realizzati al CERN precedentemente, fu attribuito all’inizio alla cattiva qualità dei materiali utilizzati. Ma quando, tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018, furono realizzati i “moduli 1”, cioè i primi moduli di produzione costruiti utilizzando i materiali finali, e furono evidenziati gli stessi problemi di instabilità, capimmo che il problema era più serio di quanto pensassimo e che occorreva andare a fondo per identificarne l’origine.

Direi che i primi mesi del 2018 sono stati i più difficili. Perché da un lato era molto forte la pressione dovuta alle tempistiche del programma di produzione, dall’altra sapevamo che le camere, così come le stavamo costruendo, non avevano la qualità adeguata. Ricordo riunioni su riunioni e discussioni infinite. Devo dire che in quel periodo i colleghi del management dell’esperimento ATLAS, in particolare il portavoce di allora, Karl Jakobs, e il Technical Coordinator, Ludovico Pontecorvo, furono molto presenti e attivi nel tentare di contribuire alla soluzione dei nostri problemi fornendoci tutti gli strumenti possibili. In qualche modo il progetto NSW fu posto al centro dell’attenzione della collaborazione ATLAS. Credo di poter dire che il loro apporto sia stato molto importante.

Quello più emozionante?

Ho un ricordo specifico legato a quel periodo. Mi trovavo a Monaco, nel laboratorio dei nostri colleghi dell’università di Monaco LMU, in uno dei frequenti scambi che avevamo tra gruppi, e stavamo analizzando le loro camere. Mi chiamò al telefono Mario Antonelli, responsabile della attività a Frascati, che mi disse che i ricercatori di Frascati, rivedendo i disegni tecnici dei layout resistivi, si erano accorti della sostanziale differenza tra i layout dei due diversi tipi di pannelli di read-out (“eta” e “stereo”) che avevamo, e che questo poteva spiegare il diverso comportamento di instabilità che osservavamo tra i due tipi di pannelli. In effetti quello era uno dei pochi indizi che avevamo: gli “eta” sembravano andare significativamente meglio degli “stereo”.

Fu quella l’osservazione chiave da cui partì la comprensione di quella che si è rivelata essere la principale causa del problema: gli strati resistivi forniscono una insufficiente protezione alle scariche elettriche dovute alle possibili impurezze.

Fu una svolta, perché in breve osservammo una chiara correlazione tra resistenza e stabilità dei settori, e da lì fu proposta, sempre dal gruppo di Frascati, la tecnica della passivazione che, al costo di una riduzione dell’area sensibile, permette una operazione in maggiore stabilità del rivelatore.

Questo è stato un contributo molto importante della collaborazione italiana all’intero progetto NSW. Nel giro di pochi mesi, dopo numerose visite dei nostri tecnici e dei nostri ricercatori per spiegare la tecnica della passivazione, anche gli altri siti costruttivi all’estero accettarono di adottare la stessa tecnica, e nel complesso la condizione di stabilità delle camere è migliorata in modo molto significativo.

Quale è stato l’impatto della pandemia su questo lavoro?

L’ultima parte della costruzione delle camere in Italia si è svolta nel primo anno della pandemia, fino all’autunno 2020. Con l’eccezione del periodo di chiusura totale (primavera 2020), le attività sono poi andate avanti a pieno ritmo, sempre nel rispetto delle linee guida dell’INFN, grazie all’impegno costante di tutti nei vari laboratori coinvolti. Lo stesso si può dire delle attività al CERN, sulle quali la pandemia ha di fatto avuto un impatto molto limitato. Ognuno di noi ha dato il massimo anche nei momenti più bui della situazione pandemica, durante i quali tutti i test e gli studi necessari sono comunque stati portati avanti con grande senso di responsabilità e dedizione.

Cosa succederà ora che i due rivelatori sono istallati nella caverna di ATLAS?

Non era affatto scontato che si riuscisse a completare e installare entrambe le Wheel in ATLAS in tempo per l’inizio del Run 3. Tant’è vero che avevamo preso in considerazione anche scenari diversi, tra cui quello di rimandare l’installazione di una o addirittura di entrambe le Wheel al successivo periodo di manutenzione dell’acceleratore, Long Shutdown 3, previsto nel 2025. A questo proposito, era anche stata valutata l’eventualità di prendere dati in configurazione asimmetrica, con una nuova Wheel da un lato e una vecchia Wheel dall’altro.

L’ultima fase della produzione delle camere è stato un vero e proprio rush finale soprattutto per quei siti costruttivi che si sono trovati a fronteggiare difficoltà maggiori. Per questa ragione, dopo la fine della nostra produzione, alcuni tecnici INFN hanno accettato di contribuire alla costruzione nel sito costruttivo francese (Saclay, vicino Parigi) che si trovava maggiormente in ritardo per ragioni legate alla qualità delle loro schede di read-out. È stata installata una seconda linea di produzione a Saclay e i nostri tecnici hanno proficuamente collaborato con i colleghi francesi.

Le ultime camere sono arrivate al CERN nella primavera del 2021, e a pochi mesi di distanza, ambedue le Wheel sono state trasportate in caverna. Questo significa che è stato fatto uno sforzo molto importante nelle attività di integrazione e di commissioning al CERN, attività alla quale hanno contribuito anche molti fisici e tecnici INFN.

CERN: due “double-wedges” (strutture composte da quattro camere Micromegas) complete in attesa di essere montate sulle NSW.

Ora si tratta di far funzionare il sistema in caverna e di integrarlo pienamente in ATLAS. Un lavoro molto complesso sia di carattere prettamente hardware (sistema del gas, cavi, connessioni) che software (sia dal lato dell’acquisizione dati che dal lato della preparazione dei programmi per la ricostruzione delle tracce). L’obiettivo è avere il sistema integrato e completamente validato nel corso del 2022, ovvero il primo anno del Run 3.

Aggiungo che in parallelo a questo si sta portando avanti uno studio per capire se potremo utilizzare una miscela gassosa contenente una piccola quantità di isobutano che permette un ulteriore miglioramento delle condizioni di stabilità dei rivelatori. Una delle cose che dovremo fare nei primi mesi del prossimo anno è arrivare ad una decisione su questo tema.

Perché sono importanti questi nuovi rivelatori?

Lo spettrometro a muoni di ATLAS permette di rivelare i muoni che vengono prodotti nelle collisioni protone-protone in un’ampia finestra di accettanza, che va da tracce perpendicolari ai fasci (pseudorapidità η = 0, nel gergo degli esperimenti ai collider) fino a tracce quasi parallele ai fasci (fino a η = 2.5).

Tuttavia, la regione a più alta pseudorapidità è anche quella in cui è previsto un fondo di particelle più elevato in termini di numero di particelle per unità di tempo e superficie. Con l’aumento della luminosità previsto per i prossimi run di LHC questo fondo diventa davvero molto elevato, al punto che i rivelatori delle vecchie Wheel non avrebbero garantito un funzionamento adeguato. È stato dunque necessario operare questa sostituzione, per permettere all’esperimento di rivelare i muoni in tutta la finestra di accettazione. In questo modo, tutte le ricerche che richiedono l’osservazione e la misura di muoni nello stato finale, possono utilizzare l’intera accettanza e non perdere dunque una parte del segnale.

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